Boogie è un rapper emergente, autore del singolo “OH MY” realizzato in collaborazione con Jahlil Beats (questo personaggio qui ) e pubblicato lo scorso aprile.
Il singolo lo ha portato subito alla ribalta e lo ha fatto considerare dai media, di settore e non solo, come uno dei rapper da tenere sott’occhio nel 2015.
Boogie è un’artista in controtendenza rispetto a ciò che ci si può aspettare da un rapper di Compton.
E’ vero ha il tipico passato burrascoso da membro di una gang ed è diventato padre all’età di diciannove anni (ora ne ha venticinque), ma lui preferisce definirsi semplicemente un papà a tempo pieno a cui piace fare rap.
Non ama i clichè sui quartieri neri e sui loro abitanti, non è ossessionato dall’apparire e non vuole assolutamente glorificare la vita di strada.
Al contrario, sembra a suo agio con le sue paure e le sue insicurezze, fondamentali nei testi perchè, per usare parole sue: ”le mie insicurezze sono in grado di insegnare molto a chi mi ascolta”.
Boogie appare non solo un uomo onesto con se stesso, ma anche onesto con chi lo circonda; sopratutto con il figlio, a cui non vuole mentire sulla situazione del quartiere in cui vivono e sul tipo di vita che ha condotto.
The Reach è un disco dalle tinte più cupe rispetto al precedente “thirst 48“; è anche più emotivo e drammatico, il cui fulcro è “further” canzone scritta per ricordare la storia (purtroppo accaduta realmente) di un amico e della figlia di 6 anni rimasti vittime nel raid di una gang.
Un disco forte, quindi, ma anche genuino.
The Reach è quasi un album di ”famiglia”, infatti le produzioni e il mixaggio di alcune tracce sono affidate al nipote e la voce del figlio Darius è spesso ricorrente tra una traccia e l’altra.
Ascoltando “The Reach” si ha la sensazione di venire trasportati a Compton, Boogie è bravo a descrivere come si vive nella periferia di Los Angeles e quali sono le dinamiche sociali di questi luoghi, riesce a farti osservare le persone che la abitano, una volta spogliate dagli stereotipi. Così si scopre l’acqua calda…cioè che gli stereotipi sono più il frutto di fantasticherie dei media che di una osservazione reale ed oggettiva della situazione.
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